Home » Il sistema detentivo per stranieri
I Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) sono strutture di detenzione amministrativa all’interno delle quali vengono trattenuti i cittadini di paesi terzi, che facciano ingresso dalla frontiera o che, trovandosi già sul territorio, risultino sprovvisti di un regolare documento di soggiorno o siano già destinatari di un provvedimento di espulsione. Il trattenimento si manifesta a tutti gli effetti attraverso la privazione della libertà personale nei confronti di soggetti che abbiano violato una disposizione amministrativa, ovvero il mancato possesso del permesso di soggiorno. Com’è noto, all’interno del nostro ordinamento, la privazione della libertà può essere esercitata solo in casi previsti dalla legge o a seguito di convalida da parte di un giudice.
Il fondamento giuridico dei Cpr nell’ordinamento italiano affonda le sue radici in modelli usati fin dagli anni ’90. Tali politiche sono state poi rafforzate dalle normative dell’Unione Europea, le quali, attraverso un tentativo di unificazione della materia migratoria tra gli stati membri, si sono sempre più direzionate verso la realizzazione di un sistema di rigido controllo delle frontiere con una declinazione securitaria.
Infatti, se l’Europa nei decenni compresi tra gli anni ’50 e ’70 non era ancora stata meta di migrazioni esterne, a partire dagli anni ’80, con le variazioni dell’assetto politico e l’acuirsi di conflitti armati, cambiamenti climatici e disparità socioeconomiche è diventata la nuova protagonista di flussi migratori. Ne è derivato che, a partire dal 1985 con l’Accordo di Schengen, gli Stati europei hanno creato uno spazio comune tramite una progressiva eliminazione dei controlli alle frontiere, con il fine di garantire la libertà di circolazione di merci e persone nell’area Schengen. Se da un lato, dunque, la libertà di circolazione diventava un diritto in espansione per i cittadini degli Stati membri, dall’altro, la tendenza nei confronti dei cittadini di Paesi terzi andava verso un maggiore controllo e una maggiore sicurezza delle frontiere.
Negli stessi anni con il Trattato di Amsterdam, entrato in vigore nel 1999, la materia migratoria diventava di diretta competenza comunitaria e veniva emanata la c.d. “direttiva rimpatri” (2008/115/CE) con la quale veniva disposta una procedura di rimpatrio per chi, fermato alla frontiera o già presente sul territorio, si trovasse in condizione di irregolarità o fosse in possesso di un provvedimento di espulsione. Nelle more del rimpatrio la direttiva dispone il “trattenimento” della persona irregolare (art. 15) in appositi centri di permanenza temporanea. (art. 16). Nulla dispone in merito a una serie di altre questioni riguardanti le garanzie, gli strumenti di tutela e i tempi di detenzione, dando vita alla possibilità di un recepimento della direttiva diversificata e arbitraria da paese a paese.
Parallelamente alle politiche europee, anche nell’ordinamento italiano iniziavano a delinearsi i primi profili normativi sulla detenzione amministrativa. Il primo tassello viene posto con la l. 39/90 (cd. Legge Martelli), con la quale veniva introdotto il respingimento e l’espulsione dei migranti irregolari, ponendosi già in un’ottica di controllo nei confronti dei cittadini stranieri.
Ma è con la c.d Legge Turco-Napolitano n. 40/1998 che si delinea la detenzione dei cittadini di paesi terzi irregolari. Vengono istituiti i Centri di permanenza temporanea (Cpt) nei quali è previsto un trattenimento per un periodo massimo di 30 giorni, in caso di rimpatri non immediatamente eseguibili. In Italia viene così disposta ufficialmente la detenzione a fini amministrativi non collegata alla commissione di fatti di rilevanza penale.
A questo punto intervengono una serie di modifiche normative che però nella sostanza non hanno mai davvero cambiato la natura detentiva dei centri. Con la c.d. legge Bossi-Fini (l. 189/02) il periodo di detenzione passa da 30 a 60 giorni e l’inottemperanza all’ordine di allontanamento viene qualificata come reato; la legge dispone altresì, la possibilità di trattenimento del richiedente asilo in appositi centri di identificazione e, addirittura, ove questi sia già destinatario di provvedimento di espulsione o respingimento, in un Cpt.
Ancora, il pacchetto sicurezza d.l. 92/08 modifica la nomenclatura dei Cpt in Centri di identificazione ed espulsione (Cie). Intervengono poi altre modifiche sui tempi di detenzione. Si passa dapprima da 60 a 180 giorni (pacchetto sicurezza l. 94/09); poi, con il recepimento della “direttiva rimpatri” (l. 129 del 2011) si prevede che i 180 giorni possano essere prorogati di sessanta giorni in sessanta giorni fino a un massimo di 12 mesi. Successivamente, la crisi economica che il paese stava affrontando e i costi che la gestione dei Cie richiedeva, induce il governo a ridurre drasticamente i tempi massimi di trattenimento, portandoli dai precedenti 18 mesi a 90 giorni (l. 161/14). I Cie poi subiscono nuovamente una ridenominazione con il c.d Decreto Minniti Orlando (n. 13/17) e diventano Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), con la previsione anche di un ampliamento della rete e l’apertura di nuovi centri da collocare preferibilmente in aree extraurbane. Il c.d Decreto Salvini (n. 113/18) muta nuovamente il termine massimo di trattenimento amministrativo del cittadino straniero nei Cpr, dai previgenti 90 giorni, tornano a 180 giorni, fino ad arrivare alle modifiche del c.d Decreto legge Lamorgese (n. 130/20) con il quale il periodo di detenzione passa nuovamente a 90 giorni prorogabili per altri 30 per i cittadini di nazionalità con cui l’Italia ha stretto accordi di riammissione; 180 giorni per le persone che rifiutano di farsi identificare. L’attuale normativa, introdotta con il d.l. 20/23 (cd. Cutro), ha aumentato da 30 a 45 giorni il termine di proroga massimo del trattenimento nei Cpr applicabile allo straniero cittadino di un Paese con cui l’Italia abbia sottoscritto accordi in materia di rimpatri.
Tutti questi numerosi interventi legislativi sui Cpr, sono stati legittimati negli anni da una ratio giuridica giustificata dal perseguimento politico di un contrasto alla migrazione, realizzata attraverso gli strumenti del rimpatrio e dell’allontanamento dal territorio nazionale delle persone migranti irregolari. Di fatto però, si è agito quasi sempre esclusivamente sulla detenzione e sui tempi di trattenimento. Sul piano dei rimpatri effettivi, i numeri sono piuttosto esigui e annualmente il numero delle persone allontanate corrisponde a meno della metà del totale delle persone detenute. Appare evidente, quindi, l’inefficacia di tale metodologia come strumento di contrasto alle migrazioni irregolari e si pone quantomeno il dubbio che, dietro questa ufficiale giustificazione politica, si nascondano altre ragioni, quella deterrente al fine di scoraggiare gli arrivi e quella punitiva.
I posti destinati al trattenimento dei migranti irregolari sul territorio nazionale erano, fino al 2013, circa 1.900 dislocati in tredici centri. A seguito della chiusura di alcuni di essi, i Cpr aperti e attivi oggi in Italia sono dieci, per una capienza di 1.100 posti (fonte e mappa: rapporto “Buchi Neri“, 2021, a cura di Cild) e sono così dislocati:
Gran parte dei centri di detenzione sono stati aperti alla fine degli anni ’90, come Bari, Brindisi, Caltanissetta, Roma e Torino; altri centri sono stati aperti in tempi più recenti, a partire dagli anni 2000 come Gradisca D’Isonzo, Potenza e Trapani, fino ad arrivare a centri più recenti come quello di Macomer e Milano.
Tutte queste strutture sono collocate in aree extraurbane, all’interno di edifici già esistenti. Spesso si tratta di ex strutture penitenziarie, come nel caso di Macomer, o ex caserme militari come per Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo, o di centri polifunzionali situati nei pressi di zone militari e aeroporti dove sono collocati anche Cpa (ex Cara), come nel caso di Bari Palese e Brindisi Restinco. Si tratta di luoghi di difficile raggiungimento, situati in zone lontane dai centri abitati e dagli sguardi della società civile, dunque invisibili e inaccessibili, motivo per il quale non solo è evidente la scelta politica di volerne oscurare l’esistenza ma anche di renderne difficile il controllo e il monitoraggio.
Le costanti proteste insorte in questi anni da parte delle persone trattenute al loro interno e dei conseguenti disordini, incendi e atti di autolesionismo, sono un chiaro e disperato tentativo di denuncia delle condizioni degradanti e violative dei diritti umani e civili che si realizzano nei centri. Situazioni confermate e debitamente documentate anche dai Report del Garante dei diritti delle persone detenute, resi pubblici a seguito delle attività di controllo da lui esercitate in occasione delle visite di accesso.
I Cpr sono a tutti gli effetti dei centri chiusi, all’interno dei quali le persone trattenute subiscono una condizione di privazione della libertà equivalente di fatto a una detenzione carceraria. A differenza di quest’ultima però, non esiste una norma che disciplini in maniera netta e garantita i controlli al suo interno sulle condizioni delle persone, o i diritti di accesso alla difesa, all’informazione, alla comunicazione con l’esterno o alla possibilità di ricevere visite.
La competenza sul funzionamento dei Cpr è delle prefetture, le quali possono affidarne la gestione e l’erogazione dei servizi a enti attuatori profit e non profit per mezzo di assegnazione di gara a seguito di aggiudicazione di un bando pubblico. Non è raro, tuttavia, che gli appalti siano affidati con procedure eccezionali e senza bandi pubblici, sollevando non pochi dubbi di trasparenza in merito. A seguito dei fatti di Cutro, l’11 aprile 2023 è stato dichiarato lo stato di emergenza su tutto il territorio nazionale ed è stato emanato il d.l. 20/23.
Ne è derivata la possibilità per le prefetture di nominare, in caso di grave inadempimento degli obblighi previsti dal capitolato di gara di nominare uno o più commissari, per la straordinaria e temporanea gestione dell’impresa con conseguente affidamento diretto di un nuovo appalto per la gestione del centro, senza previa pubblicazione del bando. Tale condizione potrebbe creare terreno fertile per situazioni torbide non solo riguardo la violazione dei diritti nei centri, ma anche in riferimento all’utilizzo dei fondi destinati.
La Puglia è l’unica regione d’Italia nella quale sono attualmente presenti ben due CPR, quello di Bari-Palese e quello di Brindisi-Restinco, i quali hanno iniziato la loro attività già a partire rispettivamente dal 1998 e dal 1999. I primi due Centri di permanenza temporanea, secondo la denominazione all’epoca in uso, furono il centro di Brindisi Restinco ed il Centro di San Foca (LE), rispettivamente da 83 e 180 posti letto. La struttura di San Foca, gestita dalla Fondazione “Regina Pacis”, diretta emanazione dell’arcidiocesi di Lecce, è stata al centro di alcune gravi vicende giudiziarie che ne hanno determinato la chiusura definitiva nel 2005. Il centro di Brindisi era originariamente gestito dell’associazione di carabinieri in pensione “Fiamme d’Argento” per circa dieci anni, per poi passare nel 2008 ad altra gestione. Nel 2006 ha invece aperto la struttura detentiva di Bari Palese.
L’area nella quale si trova oggi il Cpr di Bari Palese veniva inizialmente utilizzata come centro temporaneo in periodi di emergenzialità, dove i migranti venivano collocati in attesa dell’esito delle loro domande di asilo. A partire dal 2006 è stato adibito a centro di espulsione, dapprima con la denominazione di Cpt e poi come Cie. Nel 2016 è stato chiuso per un breve periodo e nel 2017, con il decreto Minniti-Orlando, è stato ufficialmente riaperto come Cpr. La sua capienza totale nel 2018 era di 72 posti teorici e 50 effettivi, oggi ha una capienza di 126 posti. Nel triennio 2018 – 2020 sono transitate 868 persone nel 2018, 698 persone nel 2019 e 696 persone nel 2020 e sono state rimpatriate il 44,2% nel 2018, il 36,5 % nel 2019 e il 47,55% nel 2020. A dimostrazione che il numero delle persone migranti effettivamente rimpatriate rimane un numero esiguo, inferiore alla metà delle persone trattenute.
Il Cpr di Brindisi Restinco, a partire dalla sua apertura e fino al 2005, ha funzionato come centro di permanenza temporanea per immigrati irregolari in via di espulsione. Nel 2007 la struttura originaria è stata chiusa per lavori di ristrutturazione, riaprendo nel 2008 come centro polifunzionale. Il centro detentivo si trova da allora all’interno della cinta muraria che ospita anche il Cpa (ex Cara), con cui condivide la palazzina degli uffici amministrativi. A partire dal maggio 2012, il Cpr è stato chiuso per lavori di ristrutturazione per poi riaprire nell’ottobre 2015. Dopo tali lavori ad oggi ha una capienza massima di 48 posti.
Nel triennio 2018 – 2020 sono transitate 321 persone nel 2018, 241 persone nel 2019 e 300 persone nel 2020 e ne sono state rimpatriate il 60% nel 2018,il 68 % nel 2019 e il 57% nel 2020.
Inizialmente, tali centri hanno funzionato come propaggine dei Centri di accoglienza attivi in regione e hanno cominciato ad ospitare, in percentuale sempre maggiore, anche cittadini stranieri già presenti da tempo sul suolo italiano e colpiti da un provvedimento di espulsione. L’afflizione che subiscono le persone all’interno di questi centri è di particolare gravità e spesso priva di tutela. Ai trattenuti vengono somministrati psicofarmaci e sedativi, con l’intenzione di placare atti di autolesionismo, tentativi di suicidio, rivolte e incendi, conseguenza tangibile della frustrazione e dei disagi psicologici causati dallo stato di trattenimento e dalla privazione della libertà. Uno stato aggravato poi dall’incertezza riguardo la propria posizione giuridica e dalla difficoltà di mettersi in contatto con l’esterno (inclusi i difensori legali).