di Anna Spero – laRepubblicaBari 29/01/2024
Nelle scorse settimane si è tornato a parlare di migranti, a seguito di alcuni episodi di cui sono stati protagonisti. L’8 gennaio 2023, presso l’hotspot di Taranto, le circa mille persone recluse nel centro hanno dato avvio a tre giorni di proteste, per denunciare i tempi di detenzione a cui sono sottoposti nelle more dell’espletamento delle procedure di identificazione previste al loro ingresso sul territorio italiano.
Solo un mese fa, il 19 dicembre 2022, presso il Cpr di Restinco, in provincia di Brindisi, ha avuto luogo un’altra protesta per rendere note le condizioni di vita al suo interno, durante la quale, a seguito di un incendio, un migrante ha perso la vita. Negli scarni resoconti giornalistici, poco si è detto tuttavia su cosa accade in questi luoghi, di cui spesso si ignorano la natura giuridica e le condizioni che producono le proteste.
Di cosa stiamo parlando quando sentiamo nominare i Cpr e gli hotspot? I Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) sono luoghi di trattenimento dei cittadini stranieri, in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione, poiché sprovvisti di un titolo di soggiorno valido. Gli hotspot invece sono stati introdotti nel 2015 con l’Agenda europea sull’immigrazione. Sono stati proposti come strumento per far fronte agli arrivi dei migranti sulle coste di Italia e Grecia, in un periodo di flussi che già all’epoca era stato definito emergenziale. Non esiste tuttavia una definizione giuridica chiara degli hotspot, il legislatore europeo parla piuttosto di un “approccio” a metà tra un metodo e una strategia, che ha come obiettivo quello di creare una collaborazione tra le agenzie europee e le autorità nazionali, per condurre con rapidità le operazioni di identificazione, registrazione e rilevamento delle impronte digitali degli stranieri in arrivo. Questo approccio si è concretizzato con la predisposizione di particolari luoghi fisici.
Gli hotspot, detti anche “punti di crisi”, ad oggi attivi sul territorio italiano si trovano a Lampedusa, Messina, Pozzallo e Taranto. Gli stranieri in arrivo via mare sono foto-segnalati, identificati e poi indirizzati verso una procedura di asilo o di rimpatrio. È bene ricordare che la convenzione di Ginevra garantisce la facoltà di richiedere la protezione internazionale a prescindere dal proprio paese di origine. La richiesta deve essere esaminata da una Commissione territoriale, che a seguito di un colloquio con il richiedente asilo, decide se riconoscere la protezione, rigettare la richiesta avanzata e procedere al rimpatrio, o riconoscere un altro tipo di tutela. L’accesso alla procedura di richiesta di protezione internazionale non può in alcun modo essere deciso dalla polizia di frontiera. Con l’introduzione degli hotspot si procede invece spesso a una “catalogazione” degli stranieri, proprio in base al loro paese di origine, come era già emerso nel 2016, nella relazione sul sistema di identificazione e di prima accoglienza nell’ambito dei centri hotspot svolta dalla Commissione parlamentare di inchiesta.
Nell’atto si delineava il problema dei cosiddetti “migranti economici”, verso i quali in più occasioni si era proceduto con un provvedimento di respingimento fondato esclusivamente sul paese di provenienza (i cosiddetti paesi sicuri). Questa prassi illegittima era facilitata anche della compilazione del «foglio notizie», documento con cui si recepiscono le principali informazioni di carattere personale dei migranti, tra cui i motivi di ingresso. Oltre alla violazione del diritto di accesso alla procedura d’asilo, ci troviamo anche dinanzi a una inedita forma di privazione della libertà personale, senza commissione di reato. Le operazioni di identificazione richiedono tempi lunghi, a volte superano i 30 giorni. I migranti restano reclusi nei centri senza avere contatto con il mondo esterno, quindi senza alcun accesso alla tutela giuridica e invisibili al controllo giurisdizionale.
L’articolo 13 della Costituzione non consente la restrizione della libertà, se non nei casi e modi previsti dalla legge e fatta salva la convalida giurisdizionale dei provvedimenti restrittivi. Si verifica perciò una violazione costituzionale. La detenzione, l’isolamento, le restrizioni all’accesso all’informazione e al diritto di difesa sono gli strumenti per restringere l’accesso al soggiorno legale sul territorio. C’è da interrogarsi dunque sul perché tale approccio, introdotto come misura emergenziale, sia diventato poi una prassi per la gestione dei migranti in ingresso.
Il trattenimento degli stranieri è diventato una misura di gestione ordinaria dei flussi migratori, normalizzata a tal punto da non avere bisogno di ulteriori legittimazioni. La narrazione politica dominante continua a descrivere i flussi migratori come un pericolo sociale dal quale proteggersi, per il quale l’unica risposta possibile sembra essere quella delle politiche securitarie, che sulla
nostra scala valoriale è riuscita ad avere la meglio anche sulla tutela dei diritti umani e fondamentali.